Pensiero stupendo.
Pathos: emozionarsi.
Passione: desiderio, sentimento, furia espressiva, pulsione vitale.
Sembra che il tempo se lo porti via, il “pathos” dico. Mi è facile immaginarlo come quell’uomo in frack che scompare nella nebbia!
Parlare di passioni sembra essere diventato obsoleto.
L’Uomo e la Donna contemporanei tendono a soddisfare piuttosto bisogni o compulsioni.
Ora scelgono razionalmente obiettivi, ora confondono l’urgenza con la passione e diventano dipendenti dall’oggetto, sia esso alcool droghe lavoro o viaggio.
Qualcuno ama equivocare, crearsi un alibi e chiama “passione” un passatempo. Educati alla prudenza dai vissuti di insuccesso si cammina anestetizzati dalla ratio, convinti nel concreto quotidiano e si diventa “apatici”.
Senza pathos, nessuna schiavitù da passioni, solo un rassicurante sopravvivere, assicurarsi equidistanza tra vita e morte, tra estremi coinvolgenti , spaventevoli laddove troppo intensi. Muccino che definisce “amatoriale” il Pasolini della poesia raccontata con la macchina da presa, come molti contemporanei ha difficoltà a comprendere la perturbante intensità della complessa bellezza pasoliniana.
La ricerca della mediocrità, l’autoreferenzialità e lo scambio di riconoscimento all’interno di un gruppo chiuso che si autocelebra , diventano istituzione di omologazione del pensiero, danno forma statica e stagnante al quotidiano e mettono in pericolo l’emergere del genio che ha consentito la sopravvivenza della specie. Per fermare l’apatia occorre essere protagonisti della propria vita, esistere, sentirsi vivi: emozioni di un contesto sociale sano. Il nostro ormai è quello degli invisibili.
L’apatia è diventata sintomo diffuso: l’assenza di emozioni e motivazioni, riduzione di interessi e comportamenti finalizzati ad uno scopo; di tipo depressivo quando si associa a vissuti di disperazione, colpevolizzazione e disistima di sé che determinano un pervasivo distacco e disadattamento alla realtà. Colpisce adolescenti e adulti, spesso discenti e docenti se la contagiano, non rappresentati tra i sintomatici di rilievo di una ricerca sociale assente.
Essere adolescenti fino a 30 anni fà significava vivere il conflitto generazionale, lottare per la propria identità e diversità. Era sano: gli psicologi dell’età evolutiva lo spiegavano a genitori disperati che si trovavano a cercare di comunicare con giovanissimi ricchi di ambizioni del pensiero, diversi, complessi.
Il conflitto passava quando l’adolescente canalizzava tutta la sua vis vitale in passioni possibili. Ora sembra difficile credere ad una passione e l’apatia appare in forma di disinteresse, demotivazione, mancanza di stimoli, evidente immobilità fisica, mentale, progettuale e creativa, sofferenza interiore, disinteresse per la scuola o il lavoro, il tutto associato a scarsi risultati, mancanza di reazioni emotive di fronte a fatti gravi.
Nei più giovani si aggiunge eccessivo timore e timidezza, assenza di amici e coetanei, eccessive paure di fronte alle trasformazioni puberali, eccessive angosce legate al peso, angosce legate all’immagine fisica di sé, assenza di attività autoerotica, tendenza eccessiva alla fantasticheria, uso della menzogna, sentimenti di onnipotenza e megalomania, forme di aggressività ‘incontrollata’ , tendenza a fare incidenti , episodi di autolesionismo.
Cosa sta succedendo?
La depressione prende questa forma nauseante.
Quotidianamente i più giovani galleggiano in una realtà in cui tutto è già scritto; è una palude con acque che non appaiono torbide come sono nella realtà. L’espressione sembra essere quella di un grido statico, una voce che non urla, un silenzio affatto romantico, un pieno vuoto, senza sensi.
Esistere sarebbe la cura; essere protagonisti della propria vita e non subirla passivamente. Sembra complicato in un contesto in cui il sogno è diventato un retaggio patetico degli anni 80 e gli unici a parlare di crescita personale appartengono ad una elite culturale nella maggior parte dei casi vista come visionaria e interpretativa di una realtà definita “concreta”.
Colgo un materialismo culturale sempre meno analitico, una difficoltà all’integrazione di altre culture, il pregiudizio nei confronti della riflessione profonda e del bisogno di senso. C’è un livellamento del pensiero, la diffidenza verso un’idea che emerge, una nuova opinione, teoria, concezione ma anche intenzione, disegno. L’individualità viene letta come individualismo e si perde l’opportunità che dal singolo nasca nuovo seme sociale.
Forse decisivo impegno può essere vigilare alla ricerca della diversità talentuosa, abbandonare ogni conservatorismo e integrare nuove parti anche se non del tutto comprensibili; allenare l’intuito e il sentire e incoraggiare i più giovani ad ESSERE e non ad “essere efficienti” restituendo loro la dignità del possibile. Krishnamurti scrive: “Libertà dal conosciuto” sull’avere il coraggio di perdersi per ritrovarsi nuovi. Chissà che lungo la strada del ritorno si possa incontrare del pathos in forma di frutto mangiato dagli uccelli o polline sulle zampette di insetti, seme di una nuova permacultura .
Deborah Carta